«Se almeno uno dei due deve morire, allora periremo entrambi» Queste furono le ultime parole dei miei genitori.
Avevo solo due mesi quando Aika Yoshida e Roy Anderson abbandonarono il loro unico figlio alla sua inutile vita.
Probabilmente vi starete domandando il motivo della loro decisione, in realtà è molto semplice: mancavano due giorni al compimento dei loro ventun anni.
Non posso vedervi, tuttavia immagino la vostra espressione confusa, perciò, credo sia mio dovere fornirvi delle spiegazioni; dunque, iniziamo:
Mi chiamo Christopher Anderson Yoshida e sono nato il 2 aprile dell’anno 4873.
Sono stato un bambino felice e una persona normale, ma al mio quattordicesimo compleanno cambiò tutto.
Nacque il terrore.
Vedete, dove vivo io se non si è coraggiosi e impavidi non si vale nulla e, soprattutto, non si è degni di far parte della nostra società.
Cercherò di essere più diretto: dove vivo io, per non essere ripudiato, si deve uccidere.
Perciò, dai quattordici anni inizia la suddetta FF, cioè la Fase di Formazione, durante la quale il Governo assegna quattro anni di tempo per uccidere una persona a vostra scelta.
Non serve corrucciarsi, ovviamente non è obbligatorio: se a diciotto anni non avete ancora avuto il coraggio di commettere un omicidio se ne occupa la Macchina Della Discordia (MDD).
Siete curiosi di sapere come funziona? Bene, sarò lieto di illustrarvelo: non dovete fare altro che sedervi e farvi scannerizzare da essa, dopodiché, una volta terminata l’analisi, la MDD avrà individuato la persona a cui tenete di più al mondo.
Penso che abbiate compreso lo scopo di tutto ciò, ma per sicurezza lo riporterò in modo diretto: dovrete ucciderla.
Non preoccupatevi, il nostro Governo è stato particolarmente generoso anche in questo ambito, infatti concede ben tre anni.
Indovinate un po’, i miei genitori si sarebbero dovuti ammazzare a vicenda; invece, hanno scelto di generare un figlio per donargli due abbondanti mesi di affetto prima di suicidarsi.
Ed eccomi qua.
Perdonatemi, ho tralasciato il particolare più importante, ossia ciò che accade se non si commette alcun omicidio: verrete condannati all’ergastolo, per poi essere uccisi brutalmente all’età di settant’anni, al fine di liberare qualche cella; inoltre, il Governo ucciderà l’individuo che amate di più. Adesso credo di aver detto tutto.
Tornando alla mia adolescenza, ero lo zimbello di tutti: i miei compagni di scuola si prendevano aspramente gioco di me, liquidandomi, ripudiandomi, facendomi sentire una bestiolina priva di importanza.
Tutto questo perché? Perché ero orfano e non avevo nessuna intenzione di uccidere qualcuno. Perché sono orfano e non ho nessuna intenzione di uccidere qualcuno.
«Chris, hai ancora qualche ora, ti supplico non sprecare il tuo tempo in questo modo!»
«Non è compito tuo decidere, Inas. Vorrei passare queste ultime ore tranquillamente e senza pressione, se non ti dispiace»
Dopo aver pronunciato queste parole, la spinsi fuori dalla mia stanza e chiusi la porta a chiave.
Mi era venuto un mal di testa allucinante, volevo solo stendermi sul letto e non pensare a niente: ne avevo abbastanza.
Inas sapeva essere molto irritante, quando voleva.
Oh, giusto: Inas è la donna che mi ha cresciuto, la più cara amica di mio padre, insomma, colei che avrei dovuto chiamare “madre”.
Ma non ci sono mai riuscito.
Mi buttai sul letto e presi il mio telefono per controllare l’orario: erano le 19:24 del 1° aprile 4891. Mancavano quattro ore e trentasei minuti al mio diciottesimo compleanno.
Per un secondo mi salì il panico: ero sicuro della mia decisione? Volevo davvero rimanere privo di sensi di colpa per altri tre anni, per poi fare la fine di mio nonno?
Necessitavo di schiarirmi le idee, perciò uscii dalla finestra per andare a fare due passi.
Camminai lungo le strade spoglie della mia città, impoverite dalla Guerra, e iniziai a conversare con me stesso.
Erano le 19:52.
Mentre passeggiavo mi venne spontaneo calciare i sassi e mangiarmi le unghie, come se il rumore di quelle minuscole pietre e lo sgorgare del sangue potessero darmi dei suggerimenti, ma non fu così.
Tuttavia, sapevo chi poteva darmene.
Mancavano due minuti alle 20:00 e gli orari di visita della Prigione duravano fino alle 22:00, perciò mi recai lì, a piedi.
Quando arrivai davanti all’edificio erano le 20:32, passarono circa quattro minuti prima della mia entrata.
Dopo aver attraversato quegli interminabili corridoi, giunsi davanti al parlatorio: dall’altra parte del vetro, un uomo di sessantanove anni dai capelli bianchi, gli occhi azzurri e la barba appena rasata, afferrò il telefono e mi sorrise.
Era mio nonno.
«Christopher, sono passati mesi dalla tua ultima visita, cosa ti porta qui a quest’ora?»
«Ciao, nonno. Non mi è permesso venire qui più di una volta ogni 6 mesi, ricordi?»
L’anziano dinanzi a me corrugò la fronte per qualche secondo, evidentemente confuso. Subito dopo volse gli occhi verso il cielo, come se stesse cercando di ricordare. Infine, tornò a sorridere.
«Hai proprio ragione, le regole della Prigione sono molto rigide, me ne dimentico sempre»
«L’ho notato»
Non ho idea del perché risposi con tale freddezza, so solo che mi stavo già pentendo di essere andato lì.
«Allora, sei qui per parlare del tuo passato o futuro omicidio?» Quella domanda mi lasciò perplesso. Poteva leggere nel pensiero?
«Ehm, diciamo del mio non-omicidio» Cessò improvvisamente di sorridere.
«Non seguire le mie orme, Christopher, io non mi sono mai pentito della mia scelta, ma tu lo farai. Questa non è la vita che meriti»
«Non la meriti nemmeno tu»
Socchiuse gli occhi e sospirò, poi riprese:
«Lo so, non la merito, come nessuno del resto. Ascoltami: io alla tua età ho scelto di non uccidere alcun essere innocente e se potessi tornare indietro lo rifarei. L’unico errore che non ripeterei sarebbe stare a guardare mentre uccidono tua nonna al mio posto, davanti a me e Aika.»
«Perché, l’avresti uccisa tu?» Stavolta rise.
«Oh, no. Avrei organizzato un piano di fuga anni prima. Christopher, se non usi queste ultime ore della tua vita per fare la cosa giusta, te ne pentirai amaramente»
«E cos’è giusto, nonno? Dimmelo tu, ti prego, perché io non lo so più» dissi in tono brusco.
Lui si alzò in piedi e si avvicinò al vetro, appannandolo con le sue parole, come se volesse minacciarmi:
«Penso che tu abbia già un’idea di quale persona ti assegnerà la MDD, o forse sbaglio?» I miei occhi divennero lucidi e il mio respiro irregolare: paura, pura e semplice paura.
Si risiedette, per poi comunicarmi l’ultima frase della serata:
«Mi restano solo cinque settimane di vita. Vorrei passarle tranquillamente» Mi fece un cenno e se ne andò.
Quando lasciai la Prigione erano le 21:27.
Non me la sentivo di tornare a casa dopo l’accaduto, desideravo soltanto un po’ di quiete per pensare, perciò decisi di recarmi in un parco, per metà lacerato. Esso era circondato da una miriade di macerie che non furono mai riassemblate tra di loro, tanto per mettere in evidenza i danni riportati durante la Guerra.
Mi sedetti su una panchina e riaccesi il telefono per controllare l’ora. 21:46.
Ricominciai a frantumare le mie unghie con gli incisivi per non so quanto tempo, fino a quando non sprofondai nel sonno.
Al mio risveglio erano le 23:29.
Mi alzai dalla panchina e mi incamminai verso casa, distante solo dieci minuti dalla mia posizione. Quando mi trovavo ormai a pochi metri da lì, intravidi una sagoma seduta per terra in un vicolo, con in mano una bottiglia di alcool.
“È buio ormai, potrei tentare…” pensai.
Mi avvicinai a quell’ombra e mi ci sedetti accanto, dati i lunghi e rossi capelli che facevano capolino dal cappuccio, intuii che era una donna.
«Giornata difficile?» le domandai.
«Non immagini quanto» mi rispose senza voltarsi nella mia direzione. Restai qualche secondo in silenzio, volevo temporeggiare il più possibile. Erano le 23:43.
«Posso?» chiesi indicando la bottiglia.
Lei me la porse, nel suo minuscolo movimento riuscii a intravedere dei grandi occhi castani.
Bevvi un lungo sorso e appena le mie labbra si allontanarono dal beccuccio, un retrogusto amaro invase le mie papille gustative.
«Vodka alla pesca, non male» dissi.
«Quanto intendi restare qui, esattamente?»
Tale sfacciatezza mi lasciò perplesso, ma non mi arresi. Sapevo quello che dovevo fare.
«Non ho molta voglia di tornare a casa, anche se è tardi»
«Allora stabilisciti da un’altra parte»
Ero a corto di idee e si erano ormai fatte le 23:47. Il tempo stringeva.
«Sei così gentile con tutte le persone che incontri?»
La donna si tolse il cappuccio e si voltò verso di me, irata: i suoi occhi non erano castani, ma neri. Nero pece.
«Ascoltami attentamente, ragazzino: se non porti il tuo culo lontano da qui nel giro di cinque secondi, farò in modo che questa sia l’ultima notte della tua vita. Sono stata abbastanza chiara?»
Dalla sua voce leggermente acuta intuii che aveva solo qualche anno in più di me, cinque al massimo. Dopo il suo avvertimento mi alzai in piedi e mi allontanai di qualche passo, poi volsi lo sguardo al suolo e trovai dei frammenti di vetro.
Ne raccolsi qualcuno e tornai indietro.
Quando ero ormai poco lontano dalla donna, lei mi vide e balzò in piedi. Ma io ero pronto.
Scagliai quei piccoli pezzi nell’aria, verso di lei, ma li schivò tutti.
Inaspettatamente, mi saltò addosso e iniziò a picchiarmi a sangue. Quindi, feci lo stesso.
Mi era rimasto ancora un pezzo di vetro, perciò alzai la mano contro il suo viso per ferirla con esso, provocandole un lungo taglio sulla guancia destra.
Lei mi morse il braccio e io le tirai un calcio nello stomaco con il ginocchio, subito dopo mi tirò un forte pugno sul naso, rompendolo.
Caddi a terra.
Non vi so dire cosa successe dopo, ricordo soltanto di averla sentita correre via e di aver udito lo scoccare della mezzanotte.
Angelica Alfieri, 2CS
Copertina a cura di Asia Balpasso, 2BS