La poesia di Thanatos mi sussurra
nel tenue chiarore della luna esangue,
i rovi si attorcigliano attorno al
mio torace annegato di rose illuni,
viso imbiancato, affrescato da nere
lacrime dall’amara delizia di pioggia.
Le mie iridi sognano i nostri laghi,
le nenie non mi saranno rammentate mai,
il cuore insegue, dimentica, ama in eterno,
a ritrovare quelle stelle smarrite nell’
effimera mestizia, del mio disilluso
desiderio di sorridere alle inudite
elegie dell’abbraccio della morte, musa.
Nell’istante in cui misi piede nella mia camera da letto, mi ritrovai nuovamente con il viso schiacciato contro quel muro coriaceo che è la mia realtà: l’assenza di anche un solo, minuscolo spiraglio di luce.
Riuscii a scorgere i contorni della stanza solo grazie al chiarore proveniente dal corridoio. Una volta dentro, chiusi la porta e vagai lentamente al buio, arrivando fino alla finestra per far entrare sufficiente luce del sole per non inciampare, ma non da distinguere i colori. Mi cambiai così, affidandomi al tatto e la memoria pressoché perfetta di quel mio piccolo ambiente sicuro.
Mi sdraiai sul letto, chiudendo gli occhi e cullandomi sotto il soffice lenzuolo, sul materasso modellato dal peso del mio corpo, accogliendo il buio a me così familiare, l’unico in grado di lasciarmi in pace, permettendomi di respirare il silenzio.
Non sarebbe la mia realtà però, se mi fosse così facile distaccarmi da tutto; illudermi per pochi minuti che sia tutto quieto. Sentii la voce di mia madre, con quel suo tono scontroso e aggressivo, subito arrivò l’altrettanto, se non ancora più irruente, risposta di mio padre. Era in corso un nuovo litigio.
Allungai il braccio verso la scrivania afferrando le cuffie, alzai il volume al massimo nel tentativo di offuscare le urla sempre più forti. Con la musica così alta era complicato apprezzare la canzone; ne scelsi una lenta, calma, una delle mie predilette per rasserenarmi. I miei sforzi però, si rivelarono sorprendentemente vani, le grida e gli insulti sovrastavano qualsiasi suono riproducessero le cuffie; nonostante la musica mi distruggesse i timpani, loro erano più rumorosi.
Sentii una fitta allo stomaco e all’addome, come se dei rovi penetrassero la mia pelle; come se qualcosa di aggrovigliato e doloroso mi crescesse all’interno. Mi veniva da vomitare. Uscendo dalla porta e dirigendomi più velocemente possibile dentro il bagno, cautamente cercavo di evitare gli oggetti rovesciati per terra e di inciampare negli scatoloni e sacchi della spazzatura ammucchiati negli angoli e contro i muri dei corridoio. Non li vidi nemmeno, le urla provenivano dal salotto.
Chiusi la porta del bagno alle mie spalle, girando la chiave per creare un piccolo spazio per respirare; ma non funzionò. Il mio primo istinto fu mettermi le mani sul viso, nei capelli, stringerli nei pugni e tirare finché la testa non mi bruciava. Sentii le gambe tremare, mi accasciai contro il rigido legno della porta e piansi. Non volevo urlare, non sarei riuscita comunque, dalla mia bocca uscirono solo lamenti strozzati e respiri acuti che mi lasciavano senza fiato.
Nonostante vivessi quelle emozioni sin da bambina, non riuscii mai ad abituarmi; mai, probabilmente, ci sarei riuscita.
Mi specchiai in quelle condizioni pietose: i miei occhi erano gonfi e rossi, le mie guance imperlate di lacrime, i miei capelli castani scombinati e arruffati. Sorrisi a quella vista così miserabile. Percepii un vuoto allo stomaco, al petto e alla testa; mi volsi verso la finestra. Una volta vicina la spalancai, e rivolsi gli occhi verso il basso, verso le foglie secche e imbrunite d’autunno, distanti di almeno dieci metri.
Fissai quella vista così distante dal mio corpo finché non fui scossa da un altro vuoto, ancora più lacerante. Scoppiai in un altro pianto, più rumoroso e tormentato, fino a quando, nel buio dei miei pensieri, apparve l’immagine di un’acqua limpida e nivea, e di due macchie di colore argentato. Sentii il mio cuore fluttuare, e la mia mente quietarsi.
Mi mossi in automatico verso la mia camera. Le urla erano ancora rumorose, ma erano sovrastate dal battito del mio cuore. Mi mossi nel silenzio dell’oscurità della stanza fino al mio letto; mi stesi, e chiusi gli occhi. E tutto tacque.
Sentivo il vento freddo contro la mia pelle, le mie ciocche solleticavano le mie guance e le mie braccia. Mi incamminai lungo il sentiero attorniato da pallidi fiori, presto cambiando idea e vagando sul prato gelido, ma che allo stesso tempo emanava tepore. I miei piedi nudi camminavano su quella morbida distesa a me così cara, conosciuta più di quanto abbia mai conosciuto me stessa, e il mio cuore si riempì di quiete.
Presto davanti ai miei occhi apparvero i laghi, superfici esenti da qualsiasi impurità, tinti esclusivamente dal chiarore del cielo all’ora dell’aurora. Mi ci avvicinai, scrutando la mia sagoma riflessa nell’acqua: le mie lunghe ciocche corvine che fluttuavano seguendo il cammino del vento, la mia pelle arrossata dal vento. Il mio sorriso.
<<Riesco a vederlo>> una voce sussurrò alle mie spalle. <<il tuo sorriso.>>
Mi girai, e allora nulla aveva più senso. E ogni cosa era piena di colore.
Dondolava lentamente, avanti e indietro, seduta sull’altalena che abbiamo costruito insieme, le piante arrampicate attorno alla corda su cui posava le mani. I suoi piedi accarezzavano il prato di fiori di glicine sotto di lei, del medesimo colore dei ricami del suo candido vestito, lungo fino alle caviglie bianche. Il tessuto le abbracciava perfettamente il torace, le bretelle sottili lasciavano esposte le sue spalle: sembrava un angelo. E lo è.
Le sue ciocche chiare, cineree, erano raccolte in piccoli chignon intrecciati, i capelli scompigliati dal vento, e fluttuavano nell’aria. La sua frangia solleticava le ciglia chiare, che incorniciavano le iridi argentee di cui mi sono innamorata sin dalla prima volta che i miei occhi hanno incontrato i suoi. La sua carnagione pallida contrastava con le labbra rosate incurvate in un sorriso, di cui mi sono innamorata sin dal primo momento che ho desiderato baciarle e che non smetto di sognare sin da quando l’ho fatto per la prima volta.
<<Heaven>> la chiamai. Lei si alzò dall’altalena, avvicinandosi a me, e prima che il mio corpo potesse reagire mi abbracciò, le sue mani che accarezzavano i miei capelli. Le mie braccia si strinsero attorno alla sua vita. Mi sentivo come se fossi potuta scoppiare a piangere in un istante; finalmente ero dove appartenevo. <<Sono a casa.>>
<<Bentornata, mi sei mancata>> mi bisbigliò all’orecchio. Non risposi, strinsi semplicemente la presa, riposando la guancia sulla sua spalla e inspirando il suo profumo di lavanda e amore.
I laghi sono il nostro rifugio, il nostro angolo di paradiso dove posso fuggire ogni volta che mi sento sperduta. La nostra realtà, il nostro mondo idilliaco. Lei è la mia musa, la mia casa, l’incarnazione dell’amore più puro; per Heaven non esiste al mondo qualcuno che la ama più di me. Siamo le uniche esistenti nella realtà perfetta dell’altra.
Le sue dita scorrevano tra i miei capelli, tracciando cerchi sulla mia cute. In quei momenti il mio mondo smetteva di roteare, il tempo cessava di scorrere. Sentivo di poter esistere in eterno, in quel piccolo Eden. Per sempre.
Per sempre.
Sentii qualcosa fratturarsi, un rumore acuto seguito dall’urlo di mia madre. Udii le sue grida nevrotiche, accompagnate da quelle iraconde di mio padre; le ha fatto male. Poco dopo fu il turno di mio padre di urlare, e capii che il dolore era reciproco.
Per quella che parve un’intera esistenza, l’unico rumore che le mie orecchie percepivano era quello dell’odio, della disperazione, della violenza. E in quel momento, mi era impossibile rimembrare il colore dei laghi, dei fiori, del vestito del mio amore.
Udivo il canto silente della morte, sentivo il suo odore pungente e il sapore delle lacrime che mi bagnavano il viso. Il mio corpo era paralizzato nel letto, coperto dalle calde coperte, avvolto dal buio più puro.
Il mio cervello e il mio cuore parevano annegati nel medesimo nero dell’assenza di sole. Ma, in quell’istante, sentii un calore familiare sulle mie labbra, un calore così intenso che mi sentii sciogliere. Chiusi gli occhi, e lei mi stava baciando, in quel suo modo delicato e puro. Le sue mani mi accarezzavano le guance, il suo vestito mi vellicava la pelle. I nostri piedi erano immersi nell’acqua; sentivo il mio corpo congelare, ma le mie labbra e il mio viso erano caldi. Ardeva.
E’ capace di scaldarmi nei più gelidi inverni, i suoi occhi riescono a riportarmi a casa anche quando non riesco a scorgere nulla oltre il buio, riescono a riportarmi nella nostra realtà, ai nostri laghi. Ogni volta che mi sento sprofondare, lei mi riporta a galla; ogni volta che sento il sussurro della morte, lei c’è.
- Ispirato da “The lakes” di Taylor Swift.
Di Qual Vanessa 3CS