“Qual è il senso di tutto questo?” mi domandavo mentre percorrevo soavemente le scale, apparendo quasi ignara della meta a cui conducevano. Il mio corpo si muoveva da solo, indomabile: Ezra, seguendomi, mi parlava, ma i suoni che emetteva parevano bisbigli, sovrastati dai miei pensieri urlanti.
Non so quanto durò quella discesa, mi sembrò infinita e allo stesso tempo esigua in confronto alle mie aspettative. Al termine della rampa, ci ritrovammo in un cunicolo buio e infangato, una sorta di piccola grotta: la parete di destra era sormontata da un’arco in pietra, al di sopra del quale era riportata la stessa fatidica frase del mio medaglione, scritta col sangue.
«Lilith, non hai paura?» mi domandò Ezra, che si trovava ancora alle mie spalle. Continuando a fissare la porta, scossi la testa: «Neanche un po’»
Desiderosa di scoprire le mie origini, di capirmi più a fondo e di esplorare quel mondo, feci tutti i passi necessari per varcare la Porta di Dite.
Chiusi gli occhi, non ho idea del perché, probabilmente nonostante tendessi a negarlo ero terrorizzata, tanto che impiegai un lungo arco di tempo ad aprirli, e quando ci riuscii, rabbrividii: la cavità sotterranea in cui eravamo capitati si trattava di una pianura immensa, degradante verso un fiume, ed eternamente oscura. Al centro di essa, uomini e donne nudi avanzavano in cerchio, inseguendo un’insegna che si muoveva molto più rapidamente rispetto a loro, intenta a ruotare su sé stessa.
«Quelle sono vespe?» notò Ezra.
Sollevai lo sguardo fino a soffermarsi poco al di sopra dei loro capi: effettivamente, degli insetti, somiglianti a delle vespe, sorvolano i loro corpi sudati e quando meno se lo aspettavano, li pungevano.
«Benvenuto nell’Antinferno» dissi, sospirando lievemente, al mio compagno di viaggio.
«Ah, sì» rispose «Dov’è stato collocato papa Celestino V, giusto?»
Annuii: «Sì, papa Celestino V…», poi osservai meglio quelle figure e in particolare mi concentrai su una di queste, poiché mi sembrava di averla già vista da qualche parte: feci qualche passo in avanti per poterla squadrare più da vicino, ma venni intercettata da tre creature alate, le quali mi piombarono davanti all’improvviso, impedendomi l’ingresso.
«Ferma!» ordinò una di esse, dalle ali rosso fuoco decorate con velature nere, posizionate sui contorni, che, gradualmente, si andavano a fondere con il colore dominante. Era un ragazzo ricciolino, castano, dagli occhi altrettanto infuocati, solo più tendenti all’arancione.
Nell’impormi di restare immobile spinse in avanti il braccio, lasciando il suo palmo aperto sospeso dinanzi a me: riuscii a notare le lunghe unghie tremendamente sporche e le braccia incredibilmente nere, come se fossero state macchiate da del carbone.
«Chi sei?» mi domandò poi.
Esitai poco prima che mie labbra si mossero da sole, seppure tremolando: «Sono una di voi»
I suoi occhi percorsero ogni singola parte del mio corpo con fare incerto, poi si voltò e prese il volo, seguito dagli altri due demoni: probabilmente aveva deciso di credermi.
«Aspetta!» gridai.
Lui si rigirò immediatamente verso di me, serio, rimanendo sospeso a mezz’aria, e nel suo sguardo lessi che era disposto ad ascoltarmi.
«Posso avvicinarmi?» chiesi indicando gli ignavi.
Lui annuì, ma restò fermo, deducendo che avevo un’altra domanda da porgli.
«Potrei parlare con una persona?»
Questa volta impiegò più tempo ad annuire, ma comunque lo fece: «Chiamala» disse.
E poi volò via, affiancato dai suoi compagni.
Intimai Ezra a seguirmi e poi ci appropinquammo alle anime punite: vidi di nuovo il volto di quella persona, o almeno, di colei che fu una persona, e finalmente lo associai a un nome.
Esattamente come il demone mi aveva suggerito, la chiamai, senza alcun tono particolare: «Talia».
Talia era una donna cresciuta nel mio stesso quartiere: morì più a meno all’età di venticinque anni, quando io ne avevo solo sette, motivo per cui non ricordo molto di lei, a parte il fatto che teneva la testa sempre e incessantemente incollata al telefono. Questo suo grande difetto, purtroppo fu anche la causa della sua morte prematura: camminando con quel dispositivo in mano e le cuffiette nelle orecchie, non controllò la strada prima di attraversare e venne investita da un’auto che andava particolarmente veloce.
Quando la chiamai, lei mi fissò per un istante, poi si incamminò verso di me, zoppicando: gli altri uomini la guardarono con invidia, poiché non avevano ottenuto il consenso di muoversi.
«Come stai?» le domandai, una volta giunta davanti a me.
Tentò di sbuffare, ma le ferite e punture che riportava non glielo permisero, perciò si limitò a rispondermi, scocciata: «Vespe si nutrono del mio sangue, vermi delle mie lacrime e questo posto dei miei rimpianti. Sono eternamente dannata, né il Paradiso né l’Inferno sono disposti ad accettarmi, come dovrei stare?»
Io ed Ezra ci scambiammo uno sguardo fugace, ero più che sicura che una lacrima fosse sgorgata dalle mie iridi e si stava per trasformare in un pianto isterico. Dopo aver emesso un respiro profondo, rivoltai lo sguardo verso di lei: «Sai chi sono?»
Lei mi squadrò da capo a piedi, vacillando: «Hai una faccia vagamente familiare. Ma no, non ho idea di chi tu sia» constatò con arroganza.
«Abitavamo nello stesso quartiere. Avevo sette anni quando sei…»
«Morta?» terminò, drizzando la schiena.
Quello scenario fu terrificante: nei miei ricordi era una bella ragazza, anonima in un certo senso, ma pur sempre bella. Rimembravo i lunghi e lisci capelli biondi che un tempo le cadevano sulle spalle, adesso vispi e arruffati; le guance di un rosa tenue, ormai pallide e rinsecchite; oppure i suoi splendidi occhi verdi, che notai essere cerchiati da chiazze rosse e sull’orlo di lacrimare.
«Perché sei qui, Talia?»
Aveva rivolto lo sguardo al suolo, per vergogna credo, e lì lo lasciò: «Perché non mi sono mai distinta. La mia intera vita ruotava attorno a quel fottuto cellulare: dovevo vestirmi come le altre, truccarmi come le altre, essere bella come le altre, postare le loro stesse cose, mangiare negli stessi ristoranti, avere la loro stessa vita.» e come mi aspettavo, incominciò a piangere «Non ho mai preso una decisione, non ho mai fatto del male e nemmeno del bene. Non ho una personalità, o un carattere, è come se non fossi mai esistita: mi sono omologata alla massa e questo a cosa mi ha portata?»
Alzò leggermente la voce verso la fine e a quel punto non ce la feci più: mi misi la mano destra sulla bocca e cominciai a singhiozzare, cercando di soffocare ogni gemito.
«Ho mentito, io mi ricordo di te» proseguì, avvicinandosi fino a sfiorare il mio naso col suo «Io non sono nessuno, Lilith. Non lo sono mai stata e non ho più la possibilità di esserlo. Posso soltanto definirmi una copia di persone che non mi rispecchiano affatto. Come si suol dire» e mi sussurrò le ultime parole all’orecchio «sono solo un’ignava».
Ezra mi abbracciò da dietro per calmarmi, mentre Talia si allontanò per tornare alla sua pena. Disperata, caddi a terra, smarrendomi completamente tra le sue braccia.
«Tranquilla Lilith, non è successo nulla» mi consolò Ezra, sempre cingendomi a sé.
Ormai mi ero calmata, tuttavia avevo questa convinzione che se avessi provato a lasciarlo sarebbe svanito nel nulla, lasciandomi sola. Dopo qualche minuto, decise che era arrivato il momento di
proseguire e perciò mi sollecitò ad alzarmi, per poi avviarci verso il fiume che ci separava dall’Inferno vero e proprio, noto come “fiume dell’Ade” nella mitologia greca e come Acheronte nell’immaginario comune.
Sulla riva di quell’approvigionamento d’acqua, intravidi una figura anziana, coperta da barba bianca e dagli occhi circondati da fiamme, una figura demoniaca di cui sia io che Ezra conoscevamo perfettamente il nome: Caronte, il traghettatore di anime.
Quando fummo ormai troppo vicini a lui, si voltò di scatto e, nel vederci, rimase alquanto deluso:
«Pff, questi demoni. Hanno le ali e non le sanno usare»
Sebbene fossi più che sicura di non essere mai stata dotata di un paio d’ali, mi scusai d’istinto e lui ci invitò a salire sulla barca con un cenno del capo.
«Tutti i demoni hanno le ali?» domandai a Caronte durante il viaggio.
«Certo che tutti le hanno. Semplicemente i mezzi demoni impiegano più tempo a trasformarsi»
«Quando accade, solitamente?» chiese poi Ezra.
Caronte fissò a lungo il suo riflesso nell’acqua, poi rispose: «Nel momento in cui la furia che alberga in loro raggiunge l’apice»
Improvvisamente mi tornarono in mente le parole di Sybil, riguardanti il fatto che i demoni vengono richiamati negli Inferi una volta giunto il momento più opportuno.
«Ti stai chiedendo perché sei qui, giovane demone?» disse, voltandosi verso di me. Io annuii, senza riuscire a proferire parola.
«L’equilibrio dell’aldilà è stato alterato» proseguì «dalla nascita di una creatura raccapricciante e tremendamente potente. I demoni hanno passato anni a cercarla nel mondo dei mortali, ma invano, perciò hanno invocato i mezzi demoni, nonostante non avessero idea di cosa fossero in realtà»
«Che tipo di creatura ha causato lo squilibrio tra i mondi?» gli domandai.
La prua sfiorò la riva della sponda opposta: «Una creatura che si finge umana, mascherandosi da mortale, ma è tutto tranne che una di loro. Porta con sé luce e tenebra, bene e male, vento e fiamme. Ma troppo potere porta solamente a utilizzarlo per fini personali. Nata dall’unione di un essere divino e di un essere infero, un incrocio tra un demone e un angelo, questa creatura è un pericolo per tutti noi»
Io ed Ezra scendemmo dalla barca e Caronte ci rivelò il suo nome solamente quando si fu allontanato abbastanza per potergli solo leggere il labiale, senza udire alcuna parola: «L’Angelo della Morte»
Angelica Alfieri, 3 CS
Copertina a cura di Asia Balpasso, 3 BS